Concorso Fondazione Premio Cimitile



Ecco i racconti scritti da alcune alunne partecipanti al Concorso "premio Cimitile"- Lettura e scrittura creativa- la fiaba più bella, il racconto più bello.

Il rumore del mare

“Salite, veloci !”
Il gommone si muove, cerco di non perdere l’equilibrio.
“Seduti, state seduti e non vi muovete !”
Schizzi di acqua gelida mi sfiorano la faccia, sento i brividi lungo la schiena.
“Zitti, state muti! “
La notte è senza stelle, all’orizzonte qualche luce colorata appare e scompare, come un incantesimo, fili di vento si rincorrono tra loro e ci ignorano, ci passano davanti senza voltarsi.
Sono sul gommone e sono immobile con i pensieri.
Penso solo che ho 18 anni e mi sento vecchia.
Un rombo rompe il silenzio e squarcia la tavola del mare, frantumando lo specchio blu.
Quanti siamo? Non lo so, non riesco neppure a contare, so solo che siamo tanto vicini, riesco a sentire il respiro degli altri sul mio collo, l’odore della loro terra che si mescola con il mio. Mi tengo forte al gommone e guardo lontano, cerco di non pensarci.
E invece penso, penso e non c’è verso di farmi smettere. L’ho detto ieri sera a Salim.
“Io parto”
Lui mi ha guardata come se fossi matta.
“Non ce la faccio più a vivere così, io” gli ho detto.
Lo so che mi voleva con lui ,ma devo essere egoista adesso. Devo salvare me stessa.
“ Cosa pensi di trovare” mi ha urlato “ Parti? Non ci arriverai dall’altra parte, sei solo un’illusa, non capisci a cosa vai incontro!”
“Io vado” gli ho detto “ormai ho deciso”.
Era nervoso, ha sbattuto la mano sul tavolo, mi ha rovesciato addosso parole cattive.
Lui non partirebbe mai, lo so, mi ha sempre detto di doversi occupare dei suoi fratelli. Io sono rimasta sola e devo andarmene, la guerra mi ha già riempito l’anima e gli occhi, non lascerò mi riempia anche il cuore. Sono ancora in tempo per salvarlo.
Mentre urlava mi ha guardato d’improvviso e si è avvicinato. Ha detto solo due parole : “Mi dispiace”. Poi mi ha abbracciata come il buio abbraccia il mare stanotte, mi ha dato un bacio. Un bacio bagnato da lacrime amare. Non sarà l’ultimo Salim, te lo prometto.
Un’onda passa sotto il gommone e lo alza, provoca un boato tra i passeggeri, un vuoto nello stomaco. Vicino a me sento qualcuno che si siede, mi giro.
“Qui l’acqua non arriva” mi sento dire. Accanto a me c’è una donna con un bambino.
Sorrido.
“Farah” ,si presenta.
“Adila”, rispondo.
Che “Adila” nella mia lingua vuol dire “giustizia”, ma chissà se sto facendo la cosa giusta adesso.
Un altro balzo.
Il bambino piange, lo accarezzo.
“Come ti chiami?”
“Omar” mi risponde.
Farah mi racconta di lei mentre Omar gioca con un peluche.
“Andiamo in Germania da mio marito” mi dice.
Ha i lineamenti belli, le occhiaie che infastidiscono il viso e le mani lunghe.
La guardo negli occhi e me ne pento subito : non ci riesco a reggerlo uno sguardo del genere. Farah sembra portare in quel paio di occhi tutto un mondo di ricordi e speranze. Occhi che guardano al passato e al futuro. Non parlo di me, non saprei che dire. Non ce l’ho una storia io, ho sempre e solo visto la guerra. Non conosco nient’altro. Non parlo, ma li osservo. Osservo Farah che sorride di un sorriso sporco, la vedo che indica le luci e racconta storie di draghi e principesse. La vedo che tenta disperatamente di portare quel bambino fuori dal gommone, almeno con la fantasia, cerca di nascondere la verità.
Lui che, a cinque anni, la verità ce l’ha davanti agli occhi.
Vedi, Omar, la giustizia non esiste. Siamo soli, anime in balia di un soffio di vento. Quell’innocenza nei tuoi occhi può essere la speranza. Salvati, Omar. Salvati e, un giorno, cerca di salvare la tua gente.
Il gommone si alza di nuovo.
“Mamma ,ho paura” sento dire da Omar.
“Dammi la mano”
L’onda diventa più grande, un salto più in alto.
“ Mamma , aiuto”
“La mamma è qui, Omar”
“Mamma, affondiamo”
Un’onda più grande capovolge il gommone.
Sento urla forti, gemiti. Il gommone annaspa, cerca di riprendersi, non ce la fa, non ha forze, come questa gente. Chiudo gli occhi e non sento più niente, si annebbia tutto, non distinguo più i suoni.
Mi sveglio con la testa dolorante, la salsedine addosso, che brucia sulla pelle indurita. Mi alzo piano, come chi si sveglia per la prima volta. Il sole è alto, la sabbia su cui sono scotta. Tossisco una, due, tre volte, poi mi giro verso il mare. Una tavola azzurra, calma, come se nulla fosse successo, come se quella gente non fosse mai esistita. Mi guardo intorno in cerca di qualcosa, di qualcuno.
Su uno scoglio lo vedo, mi avvicino, lo prendo tra le mani e lo stringo : il peluche di Omar.
Il cuore si riempie di odio. Non piango, no. Non verserò una lacrima su questo mare perché di lacrime è ingordo, ne ha già avute troppe, non lo aiuterò a crescere di più. Però urlo, quello si. Urlo la rabbia di chi non ci è riuscito, urlo il rancore, urlo la vendetta, il riscatto di una madre e di un figlio. E chissà come sono morti ,mano nella mano, chissà se il loro amore è andato fino in fondo.
E penso che Omar non diventerà grande, non prenderà la patente, non conoscerà il primo amore, non guiderà mai un motorino , non abbraccerà più nessuno.
E penso a suo padre che ora li sta aspettando, che si rifiuterà di capire, di accettare.
Mi rifiuto anche io, adesso.
Inizio a chiamarli forte.
“ Omar! Farah! ”
Mi sentono, ci sono anche loro, lo so.
“Omar, Farah!”
Niente. Solo il rumore del mare, di quelle onde maledette.
“Zitto!” urlo,  mentre sollevo schizzi d’acqua con i piedi.
Che diritto ha questo mare di rispondere ai richiami delle sue vittime ?
Continuano a parlare queste onde, come se volessero giustificarsi. Sto male adesso, mi lascio cadere a terra, con le mani sulle orecchie per non sentire. Ho paura di quel rumore.


Mi chiamo Adila , ho vent’anni e non ho rinunciato a quello che sono.
Sono stata accolta al centro di Lampedusa dopo lo sbarco e ho passato lì tanto tempo.
Eravamo persone, tante persone, naufraghi che aspettavano qualcosa, che si aggrappavano l’uno all’altro. Molti sono stati cacciati via, rimandati indietro. A molti è stata sbattuta una porta in faccia, è stato detto “tornatevene da dove siete venuti”, “di problemi ce ne sono già tanti, non vi mettete anche voi”.
 Molti sono stati rimandati indietro, dicevo.
Io no.
Non so che cosa ho fatto per meritarmi questo, non so perché sono rimasta io in questa terra.
So soltanto che questo mi ha insegnato a non rinunciare.
So che il mio paese non mi dava nessuna opportunità, questa terra invece me ne ha data una.
So che cerco di pagare il mio riscatto nonostante tutto.
So che riesco a fare qualcosa, nonostante il razzismo e chi non da una mano.
So anche che la mia storia finisce serena, ma quella di molti altri non è andata così.
Oggi ho una nuova vita. Grazie a incontri fortunati ho un lavoro come donna di servizio in una casa.
 E poi, continuo a fare ciò che volevo. Studio per diventare pediatra. Voglio curare i bambini, vedere in quanti di loro c’è una scintilla  come quella negli occhi di Omar.
Stamattina sono andata al mare, dopo il lavoro.
Ho guadato il cielo azzurro e i gabbiani rincorrersi, il sole tramontare e il mare restare, come sempre, impassibile, indifferente.
Ho preso dalla tasca del cappotto il peluche di Omar e l’ho stretto forte chiudendo gli occhi.
Mi chiamo Adila, ho vent’ anni e non ho rinunciato a quello che sono.
Voglio far vivere ,dentro di me, un bambino.
Voglio far vivere, dentro di me, la speranza.
 
 La forza di ricominciare
In Nigeria sembra che il tempo si sia fermato.
173,6 milioni di abitanti, le sue strade sono delle discariche a cielo aperto e decadenti. Le case sono delle baracche, la vita qui costa poco e non vale quasi niente. Bastano poche monete per mangiare il solito piatto di riso, per me no. Quando avevo otto anni una terribile guerra mi ha portato via i miei genitori, da quel giorno molte cose sono cambiate, sono rimasta sola, tocca a me procurarmi del cibo, ogni giorno vado in cerca di qualcosa di commestibile, ma non sempre riesco a trovarlo. Ogni giorno sopravvivo con la speranza che all’interno del mio villaggio non ci siano attacchi, ho solo la mia piccola baracca non voglio che qualcuno me la distrugga. Di lavoro in Nigeria non ce n’è ed è difficile capire come la gente riesca a sopravvivere. Camminando per le strade si sente fame di denaro, c’è tanta voglia di scappare.
“Ma cosa vuol dire scappare da un contesto come questo?”- Mi domando.
“Forse trovare la dignità di essere umani”- Penso.
Continuando la mia passeggiata ho incontrato un gruppo di missionari; stavano parlando della religione cristiana. In quel momento ho sentito l’esigenza della conversione al Cristianesimo. Avevo paura perché si sa cosa succede alle ragazze che si convertono al Cristianesimo: vengono rapite dai  miliziani di Boko Haram, un’organizzazione terroristica jihadista sunnita che sta distruggendo l’intera Nigeria. Le rapiscono, poi le sottopongono a indicibili violenze, le addestrano per farle partecipare agli attacchi, le obbligano a convertirsi alla loro religione, se non lo fanno le uccidono.  
Ho paura, ma l’Islam come l’ho visto nel mio paese mi spaventa. Non predica amore e compassione come il cristianesimo, quel profondo rispetto e tenerezza per gli esseri umani, per la dignità della vita non ce l’ha e non ricorda neanche minimamente i precetti del profeta Maometto, che pure parlava di pace ed armonia tra gli esseri viventi. Dopo questa profonda riflessione, decido di convertirmi al Cristianesimo. Mentre torno al mio villaggio vedo un’ombra che mi segue, ho paura, mi tremano le gambe, inizio a pensare che qualcuno mi abbia visto e seguito, inizio a correre. Arrivo alla mia capanna, entro, ho paura, non voglio restare qui. Decido di uscire dal retro e inizio di nuovo a correre. All’improvviso si avverte un boato proveniente dal mio villaggio, ma non torno indietro. Inizio a piangere uno di quei pianti che una volta iniziati non riescono a finire, quei pianti dove arrivi a piegarti in due e a stringere così forte i capelli fra le mani che hai la sensazione di poterli staccare. Mi sento più leggera, ma ho ancora paura, capisco che la mia vita è in pericolo e che hanno distrutto l’unica cosa che mi era rimasta, l’unica cosa bella che avevo in questa terra assassina , ‘’la mia baracca’’. Mi sono rialzata, cerco di essere forte, riprendo il mio cammino, non so dove sto andando, ho un vuoto al petto, mi mancano mamma e papà, da quanto tempo non pronunciavo “Mamma e papà”. Inizio a farlo ad alta voce, mi fa star bene , ma questo vuoto no. Un vuoto che può colmare solo chi l’ha lasciato. Davanti a me c’è  un gruppo di persone, mi avvicino, tra loro una donna simpatica: “ Ehi piccola dove vai?” Mi chiede.
“ Non lo so, sto scappando... il mio villaggio è distrutto.  Voi? Siete in tanti” rispondo.
“Stiamo scappando, andiamo verso l’Italia”- risponde.
Decido di andare con loro, qui non ho più nulla e sono sola. Siamo in tanti,  tutti con lo stesso obbiettivo, essere liberi, fuggire dalla guerra. Arriviamo alle porte del deserto, ci sono degli uomini ai quali dobbiamo pagare la traversata Sahara-Libia; molte persone come me non hanno i soldi e tornano indietro. Io non posso e non voglio tornare indietro, voglio andar via. Accanto a me c’è la signora che ho incontrato prima; la guardo le dico con un filo di voce:
“Non ho soldi, come posso fare?”
“Torna al villaggio”- Risponde.
Inizio a pensare che forse non è tanto simpatica come credevo.
“Non posso, mi hanno distrutto la baracca non ho più nulla”- Scoppio a piangere.
“Mi dispiace, ma i tuoi genitori?”- Mi chiede.
“Sono morti quando avevo otto anni”- Rispondo.
“Vieni con me, mi chiamo Ashaki”. Risponde.
“Io Adenike, dove andiamo?”- Le chiedo.
Vado con lei, andiamo vicino ad un uomo, prende il suo anello e glielo dà, poi prende delle monete e dice: “ Queste monete sono per Adenike”- indicando me. Forse è l’anello che le aveva regalato il marito.
Mi avvicino, “ Grazie mille signora Ashaki”- le dico.
Mi abbraccia forte.
Saliamo su una piccola carretta di legno, troppo piccola per tutti noi.  Nel deserto del Sahara muoiono tante persone, in tanti abbiamo intrapreso questo viaggio infinito, ma non tutti arriveremo alla meta desiderata.
Ci sono molti uomini, tante donne, pochi bambini ed io, l’unica adolescente.
Ci hanno dato una brocca d’acqua, troppo poca per noi; non tutti riescono a bere. Il viaggio nel Sahara è un inferno, sembra durare in eterno, ci sono molte donne che cadono dalla carretta, ma non si fermano per riprenderle,  le lasciano lì. Grida di uomini si odono da ogni angolo. Non abbiamo né cibo, né acqua. Ci siamo fermati, inizio a scavare nella sabbia, è bollente, ma continuo lo stesso con la speranza che esca un po’ d’acqua. Le mani bruciano, sono rosse, sono costretta a fermarmi, è terribile. Riprendiamo il nostro viaggio tra decine e decini di corpi senza vita, persone svenute. E’ quasi notte, ci fermiamo, vorrei dormire, ma non è possibile. Non puoi dormire in queste condizioni.
Passata questa terribile notte tra grida, pianti, botte, riprendiamo il cammino.
Mi sento chiusa in una sfera di vetro,fin quando non si romperà ce la farò, ma ho paura, ho paura che il mio corpo non resista, che da un momento all’altro mi abbandoni. Si sente qualche voce bisbigliare “Siamo a metà strada”. Mi guardo intorno,  siamo diventati meno della metà e ancora ci sono persone che cadono, muoiono. Il Sahara sembra essere la fine del mondo e in poco tempo la sua sabbia sta ricoprendo corpi senza vita.
Il sole sta tramontando, un tramonto arancione acceso, infuocato come questa fine sabbia che di tanto in tanto rimbalza sulla nostra carretta. Sono affascinata  da questo tramonto, cerco di non pensare al dolore, alla stanchezza e di perdermi in questo tramonto bellissimo che non ho mai visto nonostante stia vivendo un’ esperienza orribile. Amo questo tramonto, forse quando si è tristi si amano i tramonti. Tira del vento caldo; da tanto tempo stiamo attraversando questo deserto e non è mai successo, non so se preoccuparmi. Sta calando la notte, proviamo a sederci, sembriamo una grande famiglia che sta condividendo questa esperienza, un’esperienza che ci cambierà per sempre.
“Chissà al di là di questa infinita distesa di sabbia cosa ci sarà” Penso.
Non so darmi una risposta.
La sabbia inizia a volare, è in arrivo una tempesta e non sappiamo come ripararci. Questa tempesta sta peggiorando molte cose, ma sembra che ci stia portando verso la nostra meta. Passata la notte e quell’orribile tempesta arriviamo in Libia. Ci fanno scendere, ci sono due uomini ognuno di noi deve pagare un’altra tassa, non so come fare, non ho soldi.
Queste voci continuano ad urlare: “ Solo chi pagherà sarà accompagnato fino alla costa italiana”.
Siamo tutti in fila, mi rendo conto che la signora Ashaki non c'è più. Quando stavamo sulla carretta credevo di non riuscire a vederla perché  siamo in tanti, perché stavamo uno sull'altro, non c'era spazio nonostante i corpi che ci hanno abbandonato durante il viaggio.
La signora Ashaki non ha resistito, ho un vuoto più grande adesso. Se oggi sono qui è grazie a lei, grazie al mio corpo che ha resistito e non mi ha abbandonata.
Ho sbagliato,  dovevo fare qualcosa per ringraziarla, mi sono limitata ad un semplice 'grazie'
“Ma cosa potevo fare per ringraziarla abbastanza?” Mi chiedo.
Non so rispondermi.
Questa fila è lunga, ed io non so come fare, non ho soldi. C'è qualcuno che inizia a prendere quelle poche monete che gli sono rimaste, altri iniziano a piangere, urlare, perché come me non hanno i soldi. Qualche donna dà l'anello, forse l'anello del marito come aveva fatto la signora Ashaki. Io non voglio restare qui, se restassi qui morirei. Inizio a cercare tra i miei vestiti, all'intero del mio abito lungo c'è qualcosa bloccato vicino a quel bastoncino di legno che serve a chiudere il vestito, come un bottoncino, tiro. E' una collana, la collana della mia mamma, ho ancora qualcosa di lei; l'avevo messa qualche giorno fa, poi credevo di averla tolta, invece è qui con me. Questa collana è l'unico ricordo che ho di mia madre, non l'ho mai venduta nemmeno quando per giorni interi ho sofferto la fame.
Non so cosa fare, molte persone sono già salite, tra poco partiranno perché il gommone è già pieno di persone.
Decido di vendere la collana, questa collana è la mia ancora di salvezza.
“Scusa mamma, grazie per quest'ultimo aiuto che mi hai dato” Urlo dentro di me.
Salgo, sono l'ultima a salire, molte persone sono rimaste lì.
Siamo partiti. Chissà ora cosa mi aspetta, chissà questo viaggio quanto durerà.
Siamo partiti da poco e già è un inferno, siamo in tanti e il gommone è così piccolo che da un momento all'altro potrebbe capovolgersi.
Sono morti un uomo e una donna, gli hanno strappato i vestiti, e poi hanno gettato i loro corpi nel mare. Per far spazio prendono le persone che sono senza forze, quelle che fino ad ora hanno resistito, ma adesso la loro vita oscilla tra il coma e la morte, così decidono loro, le picchiano a morte, le affogano e poi le gettano in mare. Di fronte a queste orribili scene mi sento male, inizio a piangere, altre persone urlano.
“Siamo essere umani, non siamo numeri” Continuo a ripetermi.
Quest'infinita distesa d'acqua sta diventando un'infinita distesa di corpi senza vita, un cimitero.
Una donna disperata prende dell'acqua e inizia a bere; sono giorni che abbiamo intrapreso questo infinito viaggio, non abbiamo né acqua, nè cibo.
Qualcuno è riuscito a bere un po' d'acqua  che aveva meticolosamente conservato.
Ho freddo, voglio arrivare alla meta il più presto possibile, non riesco più a stare tra questi corpi ammassati, tra urla di disperazione, tra corpi senza vita che continuamente vengono gettati in acqua, tra persone che lottano tra loro per la sopravvivenza.
“Siamo scappati dalla guerra perché continuate a farvela?” Vorrei chiedere, ma resto zitta, sono terrorizzata.
Per riuscire  a sopportare un luogo simile bisogna saper convivere con il dolore, con la frustrazione.
Chissà come sarà la notte che sta arrivando, il mare sembra agitato, forse anche lui è stanco  di quest'orribile carneficina. Vorrei riposare, chiudere gli occhi per un po’, occhi di chi guarda la proprio vita e la vede frantumarsi. Pensate un po' com'è.
Provo a chiudere gli occhi, il mare in tempesta ci travolge, il suo suono fa da colonna sonora alle tante grida. Il nostro gommone si è capovolto ,cerchiamo di riprenderlo, sembra impossibile, ma qualcuno riesce a salire. Io ci sono riuscita, la disperazione ti porta a fare cose impossibili. Sul gommone c'è più spazio, capisco che tante persone non sono riuscite a risalire, è pieno d'acqua e fa più freddo. Inizio a tossire, ma cerco in qualche modo di trattenermi, ho paura che qualcuno possa gettarmi in questa distesa di corpi senza vita.
E' quasi mattina ci sono degli uomini a bordo di una barca, avvertono le nostre urla e si avvicinano. Sono gli uomini della guardia costiera; ci hanno portato in salvo sulla terraferma, finalmente siamo arrivati. Ci troviamo a Lampedusa, sono felice di essere in salvo, ma non riesco ad esultare.
Ho combattuto contro un mostro che mi ha divorata.
Siamo tutti in fila all'interno di un centro accoglienza, non so per quanto tempo resteremo qui, ma almeno qui avremo cibo, acqua e cure mediche , l'essenziale per sopravvivere.
E' il mio turno, per fortuna c'è un medico che parla la mia lingua, questa nuova lingua ancora non la conosco. Ho la febbre molto alta; il mio corpo, che fino ad oggi ha resistito, ha bisogno di acqua e di cibo. Così il medico mi fa una siringa e mi fa portare del cibo e dell'acqua.
Una ragazza molto bella mi  porta in un corridoio lunghissimo dove ci sono tanti letti, ma non bastano per tutti. Io mi trovo in un letto in fondo al corridoio; alla mia sinistra c'è una finestra, al lato destro c'è una signora di nome Deka. Sta male, il suo corpo è pieno di ferite.
Mi alzo e mi avvicino.
“Signora Deka cosa le è successo?” Le chiedo.
“Come conosci il mio nome?” Mi chiede.
“Io sono Adenike, il suo nome l'ho sentito prima mentre il medico le somministrava delle medicine” Rispondo.
“Vedi Adenike queste ferite? Sono scappata dalla guerra, ma per un mese sono stata tenuta in ostaggio. Con me c'erano oltre cinquanta donne, abbiamo subito inaudite violenze, ci picchiavano, ci usavano come schiave, dovevamo obbedire altrimenti ci uccidevano. Ho visto tante donne morire; io sono stata torturata perché un giorno decisi di ribellarmi, volevano uccidermi ma giurai che per niente al mondo avrei fatto  ciò che mi chiedevano. Quella notte scappai, con me scapparono altre donne, quegli uomini spietati presero il fucile e iniziarono a sparare, ci colpivano come bersagli. Io riuscii a scappare e oggi mi trovo qui con queste cicatrici e queste ferite che urlano di un dolore che non passerà mai, ma queste cicatrici e queste ferite mi ricordano che sono sopravvissuta, che sono ancora in piedi nonostante tutto”. Racconta.
Sto zitta non riesco  parlare, le lacrime non riescono a fermarsi.
“Ma cosa tiene l'uomo coì strettamente legato al mondo animale e ai suoi istinti omicidi?” Chiedo
“Non lo so, vorrei solo ricordare che noi siamo essere umani prima di essere immigranti”. Risponde la signora Deka.
Torno nel mio letto, sono distrutta, riposo. Quando mi sveglio è sera, il corridoio è pieno di persone, la signora Deka sta dormendo, non voglio disturbarla.
Così mi alzo e guardo il cielo, è pieno di stelle, vedo una stella cadente. E' bellissimo; penso che le stelle cadenti sono la dimostrazione che si può essere bellissimi anche quando si cade.
Chissà cosa ci sarà al di là di queste mura, chissà come sarà la mia vita al di fuori di queste mura, chissà come cambierà.
Mi sento sola, avere tante persone accanto serve poco. C'è un abisso tra lo stare con qualcuno per non sentirsi soli e lo stare con qualcuno che ci fa sentire meno soli.
Quando mi trovavo in Nigeria avevo un sogno, uno di quei sogni nel cassetto che pensi di non poter mai realizzare, non ci davo peso perché sapevo che lì non avrei mai potuto realizzarlo, adesso sì. Ho un sogno e voglio realizzarlo con tutta me stessa, lo stesso sogno di prima, ma adesso è più grande. Sogno di fare il medico, qualcun altro potrebbe sognare di fare il poliziotto, l'insegnante, io sogno di diventare medico per “salvare vite” letteralmente. Nessuno aveva salvato le persone a cui volevo bene e io voglio diventare quella persona che potrà cambiare effettivamente le cose, ma per il momento non posso salvare vite se la mia vita per prima è in pericolo, perché non so al di fuori di queste mura cosa mi aspetta, per ora ho salvato la mia di vita, credo di avere dentro di me la forza che solo una guerriera può avere.

Un viaggio per la vita
C’era una volta un antico mondo dilaniato dalla  guerra: Petonia. Era un mondo triste, pieno di cattiveria, di odio, pieno di gente malinconica, scorbutica, ma soprattutto, Petonia era un mondo senza amore, destinato ad essere dimenticato da tutti. Persino le bellissime creature che l’abitavano erano tristi, magnifiche creature che un tempo rappresentavano la gioia di Petonia. La guerra aveva distrutto ogni cosa bella di quel mondo. Essa aveva distrutto la felicità, la gioia di condividere di ogni bambino, aveva distrutto il loro piacere nel trovare nuovi amici e creare nuove amicizie, li aveva resi insensibili, senza alcuna emozione da vivere e da condividere. Solo Samuel era rimasto estraneo alla nuova Petonia e proiettato in un mondo che era lontano, lontanissimo da tutti gli altri. Egli era un orfanello ,senza casa, senza cibo, era povero, senza nessuno che si prendesse cura di lui, ma nonostante ciò era pieno di speranza. Samuel condivideva le sue giornate con il suo migliore amico: Onciao. Onciao era una creatura alata, un incrocio tra un unicorno e un pegaso, dal color bianco candido. Lui e Samuel trascorrevano le loro giornate volando per i cieli infiniti esplorando l’intera Petonia. Per la notte i due si rifugiavano sempre in una grotta nascosta dietro una pineta nella quale, prima di dormire, si stendevano a guardare le stelle. Una notte una donna dal vestito turchino, i capelli color miele e gli occhi color nocciola si presentò nel loro rifugio. Samuel e Onciao rimasero impietriti per la paura, ma la donna veniva in pace , anzi era una fata che li aveva cercati per molto tempo e finalmente era riuscita a trovarli. Lei  doveva compiere una missione, raccontare a Samuel e Onciao l’esistenza di altri mondi, mondi pieni di fratellanza, mondi senza guerra, pieni di amicizia e amore, amore infinito, eterno. Samuel e Onciao rimasero entusiasti per quelle parole , volevano tanto scappare dal triste mondo in cui vivevano e così fecero ma la fata, prima di scomparire in un vortice di nebbia color celeste, li avvertì dicendo che avrebbero dovuto affrontare un viaggio molto lungo e pericoloso. La mattina seguente partirono alla ricerca di nuovi mondi migliori con provviste di acqua e cibo, da subito il viaggio si rivelò  molto faticoso, i due dovettero affrontare creature pericolose, carnivore, con denti aguzzi e artigli appuntiti, ma nonostante tutto ne uscirono vittoriosi. Passò circa un mese e Samuel e Onciao arrivarono a destinazione. Arrivarono nel mondo di Asara un mondo abitato da gente molto amichevole tra compaesani, ma non molto accoglienti nei confronti degli stranieri. Infatti, appena Samuel si presentò insieme ad Onciao, venne cacciato in malo modo dalla gente del posto; i due videro una parte del proprio sogno svanire, ma non si persero d’animo. Samuel si mise in groppa al suo caro amico e iniziarono a volare per il cielo con la speranza di trovare un mondo adatto a loro. Passarono altri due mesi e finalmente Samuel e Onciao arrivarono a Freya , un mondo pieno di fratellanza, in cui non c’era guerra, ma lealtà e gentilezza. Samuel subito pensò che quello fosse il posto ideale per loro, ma appena si presentarono, i cittadini di Freya rimasero un po’ scettici al pensiero di doverli accogliere. Un uomo si offrì di ospitarli per qualche notte e Samuel e Onciao ne furono grati. Fin da subito i cittadini di Freya li avvertirono dicendo loro che per rimanere lì avrebbero dovuto lavorare molto, altrimenti sarebbero stati cacciati. I due lavoravano quattordici ore al giorno, venivano maltrattati, mangiavano poco e l’unica “ricompensa” che ottenevano dopo quattordici ore di duro lavoro era la stanchezza. Samuel e Onciao non potevano più vivere in quel luogo, non era il loro mondo, purtroppo lì non erano ben accetti, e ancora un’ altra parte del loro sogno si frantumava. All’improvviso, prima che ripartissero, si presentò davanti a lorola fata, dicendo che non dovevano abbattersi e continuare a perseverare e che sicuramente avrebbero trovato il posto adatto, dove poter ricominciare una vita migliore. Samuel e Onciao, allora, si fecero coraggio e subito ripartirono sfrecciando per i cieli tra le nuvole. Passò un mese e Samuel e Onciao “atterrarono” in un nuovo mondo, un mondo pieno di amore, di gentilezza, amicizia. Anche in quel mondo vi erano creature simili a Onciao. Un mondo finalmente accogliente, abitato da persone che appena li videro corsero loro incontro per salutarli e accoglierli come meglio potevano. Finalmente Samuel e Onciao avevano trovato in Eterea la loro casa.