Riflessioni

Tira giù il cappuccio della felpa sulla testa, S., fiore rosso. Non vuole farsi vedere. Nasconde il volto a tal punto che a stento riesco a scorgere i suoi occhi, che tiene abbassati per non incontrare l’altro. Ha lo sguardo malinconico, lo percepisco il suo disagio, sento come se la sua voce mi arrivasse dentro, fino in fondo nel petto, mi colpisse il cuore. Li sento urlare quegli occhi, che mi stanno chiamando a modo loro, sfuggenti e attenti allo stesso tempo a percepire quello che avviene intorno a sé. 
Un attimo prima, sulla soglia della porta, alla mia vista si è ritratta come per dire: Chi è? Adesso cosa mi chiederà di fare? Sembra timorosa ma subito va a prendere le sue cose sul suo banco, il primo accanto alla finestra, mentre gli altri compagni consegnano i fogli dei compiti di matematica. Non dice una parola, neanche quando l’altra compagna che dovrebbe stare con noi prova ad opporre un debole rifiuto. Chissà perché … poi! Ci ho pensato a lungo e non credo affatto perché preferisse assistere  alla lezione di religione; credo, piuttosto, per evitare la “compagnia”.
Usciamo tutte e tre dall’aula, a passo svelto e con in mano qualche penna e un quaderno; stiamo per scendere le scale quando sento una voce squillante dirmi: “ Fai il miracolo, resuscita i morti!”.
Mi giro verso la collega tanto sensibile e, fingendo di non aver capito, proseguo per la mia strada. Mi vergogno un po’per lei.
La nostra aula è piccola e poco accogliente, mi sembra spoglia e fredda, disordinata per la moltitudine di materiali e libri vecchi conservati in un armadietto, un po’ sala medica, per la presenza del lettino dove stendersi in caso di malore, un po’ ripostiglio di musica, per il vecchio pianoforte mezzo stonato lasciato sotto una delle finestre. Un computer e una stampante non funzionanti e un’altra scrivania vuota, intorno alla quale ci accomodiamo, costituiscono l’arredamento.
Ho lasciato proprio lì i materiali dell’ora precedente e appena ci sediamo il tuo sguardo si posa sul cartellone colorato che ho preparato per l’attività.
- Chi l’ha fatto? – mi chiedi.
- L’ho disegnato io. Ti piace?- ti rispondo sorridendo.
Mi viene spontaneo sorriderti, forse perché vorrei vedere lo stesso sorriso anche sul tuo visino sempre assorto.
Ci siamo incontrate varie volte nei corridoi della scuola, un saluto, un’occhiata fugace. Ma adesso siamo qui a lavorare insieme per un’ora intera ed io vorrei conoscerti meglio, poterti aiutare, per quanto mi senta inadeguata per questo compito.
- E’ bellissimo- e nei tuoi occhi vedo brillare una luce nuova- posso farlo?
- Certo, qui c’è tutto ciò che vi serve- dico, indicando fogli, matite e pennarelli.
Avevo preparato con cura l’attività, ricercando u modo coinvolgente per iniziare a lavorare insieme. Non la solita presentazione  tipo carta d’identità …
Eravamo lì, tutte e tre, persone di nazionalità, lingua, cultura e religioni diverse a parlare tra noi.
La prima cosa che mi era venuta in mente era proprio di cercare di esaltare il concetto della ricchezza della diversità, delle idee diverse che se scambiate  raddoppiano, arricchendoci profondamente  ed offrendoci nuovi spunti per osservare la realtà.
- Cosa vedi?
- Due mani. E due mele. Ah, le mele sono diverse … una è più grande, una più piccola.
- Eh sì, la prof non è tanto brava a disegnare … - mi viene da sorridere- una è venuta più piccola- E cosa fanno le due mani?
- Si scambiano la mela.
Mimiamo lo scambio utilizzando i pennarelli ed è tutto chiaro: in mano abbiamo sempre un solo colore.
- Proviamo con le idee, adesso- intervengo – come lo chiami il tuo Dio?
- Dio, Signore- dice Nadia, finora rimasta silenziosa.
- Io Allah- rispondi tu.
- Ecco, adesso sapete che nel mondo è possibile chiamare Dio con nomi diversi. Ognuna di voi ha conservato la propria idea e conosciuto quella dell’altra. Questo vale per tutte le situazioni della vita. Bisogna imparare ad affermare le proprie opinioni ed accettare  che ci siano punti di vista diversi.
- Io non so disegnare- dici, chiedendo aiuto e passando la matita alla compagna.
Intanto io penso che mi stai offrendo un esempio di collaborazione: non c’è bisogno del mio intervento perché ogni tanto ti fermi per far lavorare la compagna. Mentre il lavoro procede parliamo. 
- Da quanto tempo sei in Italia?- oso chiedere
- Due anni
- E da dove vieni?
- Siria
- Com’è il tuo paese, te lo ricordi?
- Te lo racconto un’altra volta, quando saremo sole- mi dici diventando improvvisamente seria.
Mi accorgo di essere entrata  in una sfera molto personale, in uno spazio in cui permetti difficilmente  a qualcuno di entrare, eppure hai lasciato uno spiraglio aperto. Aspetterò quando sarai pronta, se vorrai parlarne e nella modalità scelta da te.
- Ma tu mi capisci quando parlo?
Questa domanda non me l’aspettavo.
- Certo che ti capisco- rispondo 
- Molti non capiscono le mie parole.- dici con un filo di voce.
Certo, ho individuato anch’io le carenze linguistiche, non solo per la conoscenza di poche parole ma anche per la difficoltà a riprodurre dei suoni della lingua italiana, ma questo non può e non deve essere un limite. 
La vita ti ha portato lontano da casa, in un paese sconosciuto e nel giro di due anni  hai dovuto imparare una lingua nuova, completamente differente dalla tua e noi ti chiediamo, come se fosse facile, di  parlare e di scrivere usando un alfabeto diverso e per di più senza errori. Che sciocchi che siamo. A volte noi, saccenti professori, abbiamo davvero una mente chiusa.