Giovanni Verga (Parte 2)
La roba
Una delle novelle più famose di G. Verga è intitolata "La roba", Inserita nella raccolta "Novelle rusticane". Il protagonista è Mazzarò, un uomo che, partendo da umili origini, da tanta povertà, riesce ad accumulare molte ricchezze, terre, denaro, proprietà, sottraendole a nobili proprietari terrieri decaduti. Nonostante la sopraggiunta ricchezza, continua a vivere una vita molto morigerata, al limite della povertà, ossessionato da un'idea, quella di accumulare sempre più roba, lavorando incessantemente.
Passa il tempo, diventa anziano, capisce che è vicino alla morte e che non potrà portare con sé la roba, quindi soffre, vede i giovani felici, spensierati anche se non hanno nulla, mentre lui ha tutto, tranne la gioventù.
Qui vediamo espresso un concetto caro a Verga, quello della selezione naturale di chi sopravvive, chi si adatta e chi non ce la fa.
Quest'uomo ha fatto di tutto per cambiare la sua vita, per migliorare, lavorando duro, ha lottato per diventare ricco, ma nonostante ciò non è felice; quindi capiamo che l'infelicità non esiste solo per le persone povere, non dipende soltanto dall'estrazione sociale, ma anche tra coloro che ce l'hanno fatta, tra le persone che apparentemente hanno tutto.
La novella si apre con una lunghissima sequenza descrittiva, della Piana di Catania, della Sicilia; l'ambientazione viene descritta nei minimi dettagli, vengono individuati luoghi relamente esistenti, secondo i precetti della poetica verista. Lo scrittore decide, quindi di ambientare la vicenda in luoghi reali e in tempi cronologicamente recenti: la contemporaneità. Il narratore immagina un viandante che passi per le terre della Sicilia e chieda alle persone che incontra di chi siano le proprietà, le mandrie, i vigneti, gli uliveti...e la risposta è sempre la stessa: di Mazzarò, protagonista della storia non presentato sin dall'inizio, ma solo nominato, per creare un'atmosfera di attesa ed attirare l'attenzione del lettore.. E' un crescendo che porta, poi, alla descrizione del personaggio.
Subito dopo inizia una sequenza in cui viene descritto il personaggio di Mazzarò: un omiciattolo, un uomo che dall'aspetto non sembrerebbe intelligente, magro con la pancia grossa, e non si capiva come facesse a riempirla, siccome mangiava pochissimo, solo due soldi di pane al giorno. La cosa stupiva ancora di più, considerando il fatto che era molto ricco, anzi "ricco come un maiale".
Invece "aveva la testa come un brillante" e grazie alla sua intelligenza aveva comprato le terre dove prima andava a zappare, sotto il sole e la pioggia battente. Adesso veniva rispettato dalle stesse persone che prima lo maltrattavano; quelli che gli davano calci nel sedere ora si toglievano il cappello.
In realtà la sua vita non era cambiata, a lui non interessava il titolo o il ruolo sociale; voleva solo continuare ad accumulare roba e per questo continuava a mangiare quei pezzetti di pane duro nel magazzino o in mezzo alla polvere. Non beveva vino, nonostante avesse immense distese di tabacco, non aveva il vizio del gioco, non gli interessavano le donne, di cui vedeva solo i lati negativi, le spese, tant'è vero che l'unica donna della sua vita, sua madre, gli era costata ben dodici tarì per portarla al cimitero.
Subito dopo troviamo le cause di questa ossessione, legate al passato, alle sue sofferenze, quando andava a lavorare con i piedi nudi, senza vestiti e veniva maltrattato dal sorvegliante che lo riempiva di frustate ed in cambio veniva pagato pochissimo. Qui ritroviamo la descrizione puntuale delle condizioni lavorative dei contadini nella Sicilia post-unitaria. Proprio il ricordo del passato lo spinge ad accumulare sempre più roba, fino ad arrivare ad una ricchezza smisurata, per descrivere la quale vengono spesso utilizzate delle similitudini: gli aratri nei campi come i corvi a novembre, le donne intente alla raccolta delle olive alle gazze che andavano a rubarle, i suoi dipendenti ad un esercito di soldati di cui adesso è lui il capo, è lui a comandare, la situazione ora è cambiata.
La sua nuova condizione di proprietario terriero prevedeva il pagamento delle tasse al re, la fondiaria, ed ogni volta che doveva pagare al povero Mazzarò veniva la febbre dalla rabbia. Per lui l'unico vero denaro erano le monete sonanti, non le banconote, per cui l'unica volta che abdava a cambiare il suo denaro era proprio in occasione delle tasse al re.
In seguito ritroviamo i sacrifici fatti per ottenere la roba, lavorando giorno e notte e comprando un po' alla volta tutte le proprietà che prima appartenevano al barone, che non aveva saputo gestirle.L'aristocratico, infatti, non era abituato a controllare le terre, non era attento, arrivava in pompa magna, seguito da tante persone e i lavoratori sapevano quando sarebbe arrivato, si facevano trovare intenti al lavoro e quando se ne andava lo derubavano, facendogli perdere a poco a poco tutte le sue ricchezze. Un po' alla volta il barone aveva accumulato debiti, mentre Mazzarò, che aveva accumulato moneta su moneta, le aveva comprate quelle stesse terre, prima l'uliveto, le vigne, poi il palazzo del barone, al quale rimase solo il suo titolo, che Mazzarò non avrebbe mai compato, considerandolo inutile. Dopo aver acquistato tutte le terre del barone, rivolge la sua attenzione verso quelle dei piccoli proprietari, anche con l'inganno.
Nell'ultima sequenza emerge il pensiero fisso di Mazzarò, quello della morte incombente e la sofferenza di dover lasciare la sua roba. Per questo se la prende con tutti, in particolare con i giovani, che hanno tutta la vita avanti, e quando si rende conto che ormai la morte è vicina, rincorre le galline e i tacchini gridando "roba mia, vienitene con me!"